Come non citare e usare i dati in pubblico
Oggi breve, ma torno sui fondamentali
In questo numero: ci caschiamo tutti. Se un dato conferma la nostra tesi, porta avanti la nostra lotta, lo buttiamo in campo. Come se fosse una calciatrice fuoriclasse che abbiamo cacquistato con i risparmi di una vita per la nostra piccola squadra di provincia e sperassimo che da sola possa risolvere tutto il campionato (ok, non so fare le metafore sportive).
Tour del 2025 quasi al termine <3
29 novembre, Cagliari: sono al festival Pazza Idea.
3 dicembre, Bologna: vediamoci al Festival della violenza illustrata.
8 dicembre, Roma: tutto il giorno a Più libri più liberi a presentare libri non miei, ma di gente bravissima, guarda il programma.
9 dicembre, Genova: presentazione del libro alle 18:30 presso l’area archeologica dei Giardini Luzzati.
13 dicembre, Roma: sono al festival del Pensare migrante di Baobab Experience.
Sei tra le 13153 persone che leggono la newsletter. Nell’ultima puntata abbiamo parlato di persone che credono che avere i dati sia fondamentale per lavorare meglio sulla protezione della violenza. Avevo mandato la mail con l’oggetto al contrario? Sì. Il titolo giusto è questo:
Nel 2017 la Ryanair, compagnia aerea a basso costo, ha annunciato che il 92% dei suoi passeggeri era soddisfatto dell’esperienza di volo. Si è però scoperto che il sondaggio ammetteva solo queste risposte: «Eccellente, ottimo, buono, soddisfacente, passabile»
David Spiegelhalter, L’arte della statistica (Einaudi, 2020)
Regole di base per citare e usare i dati in pubblico.
Prima regola: se hai condotto una “indagine” su un tema che vuoi esplorare, assicurati di avere una metodologia scientifica, approvata da chi è esperto di ricerca sugli argomenti di cui ti occupi. Per esempio, non fare come il ministro dell’Istruzione, che cita un dato (“il 96,7%, la quasi totalità delle scuole, ha avviato percorsi di educazione e rispetto nei confronti della donna”) e poi quando pubblica la fonte, cioè una sua “indagine” (devo tenere le virgolette, è più forte di me), è piena di lacune e di qualsiasi valore statistico.
Ne ho scritto su Domani, intervistando Giulia Ganugi e Chiara Volpato:
“Che molte scuole italiane siano attive sul tema è una cosa buona, ma da questi dati sappiamo pochissimo di che cosa sia stato fatto davvero”, ha commentato a Domani la psicologa sociale Chiara Volpato, autrice di vari libri, tra cui “Psicosociologia del maschilismo”, e parte del comitato scientifico della Fondazione Cecchettin. Infatti, uno dei primi elementi critici riguarda le definizioni di “attività per il contrasto alla violenza contro le donne”. Il documento non chiarisce cosa il Ministero consideri valida come attività che rientra in questo ambito: può essere un’ora di lezione, un seminario, una mostra, un compito in classe, un incontro con esperti, o anche solo un minuto di silenzio per una vittima di femminicidio. Senza una definizione comune, confrontare i dati tra regioni o scuole diventa quasi impossibile, così come capire quanti sono gli studenti coinvolti. “Da questi dati non sappiamo se l’attività è stata fatta in una sola classe da venti studenti o in tutto l’istituto. O se si tratti di progetti che le scuole avevano già attivato o di iniziative nuove legate al Ministero. Sono informazioni fondamentali che qui mancano”, continua Volpato. Molto ampia è anche la categoria “Altro”, che raccoglie più attività di tutte le altre messe insieme. Senza una descrizione qualitativa, non è chiaro di cosa si tratti: attività sporadiche? Iniziative strutturate? Progetti interdisciplinari?
Aprite voi stessi le prestigiose slide in pdf per farvi un’idea.
Altro caso che mi segnala Massimo Prearo: la ministra Roccella sostiene che per fermare i femminicidi non serve l’educazione sesso-affettiva nelle scuole. E lo fa usando un dato, quello del 2019, per mettere a confronto i tassi di femminicidio dei vari paesi europei, da cui risulta che in Svezia ci siano più femminicidi che in Italia. Nel testo che accompagna l’immagine con la tabella cita ancora un’altra indagine di Eurostat sui casi di violenza di genere, in cui “si identifica la Svezia come uno degli stati europei che ne conta il maggior numero: il 52% delle donne intervistate ha riferito di aver subito violenza di genere (contro il 32 dell’Italia), il 41% ha segnalato episodi di violenza sessuale (contro il 19 dell’Italia)”.
In realtà proprio il secondo dato potrebbe essere uno di quelli su cui basare l’utilità dell’educazione nelle scuole, perché le donne riconoscono maggiormente la violenza subita, mentre il primo dato citato dovrebbe smentirla.
Il problema è che usare UN DATO SOLO (non un trend) per dimostrare qualcosa, qualsiasi cosa, è fuorviante. Così come tentare correlazioni (positive o negative) per dimostrare il nesso di causalità tra due fenomeni. Il femminicidio è un gesto di violenza estrema che va compreso in quanto omicidio, prima, e omicidio per motivi di genere, poi. Non possiamo dire che l’educazione a scuola da sola fermerà i femminicidi e non possiamo dire il contrario. I dati vanno letti nel loro contesto (ehi, è anche un principio del femminismo dei dati!).
In Ti spiego il dato - il libro - metto insieme tutte queste indicazioni, e continuo a pensare che sia un bel volumetto che non solo non invecchia (ricordo che avete anche lo sconto del 15% con il codice TSID15 sul sito dell’editore) ma che dovrebbe essere recapitato in molte stanze dei palazzi del potere per ripartire dalle basi della statistica.
E forse mandiamolo anche al New York Times, che da tre anni ormai è continuamente ripreso per la sua copertura del genocidio a Gaza, dove i morti palestinesi e israeliani hanno un valore diverso:
Aggiungo altre indicazioni, così il bignami è completo:
è necessario citare le fonti, e confrontare LE STESSE FONTI tra anni diversi, se è utile (es. le vittime di femminicidio segnalate da Istat nel 2025 vanno confrontate con il report Istat 2024 e non quello di Eures o del ministero dell’interno, per analizzarne caratteristiche e andamento)
le fonti sono affidabili se presentano la metodologia con cui hanno prodotto i dati.
sempre usare il dataset più RECENTE.
usare la MEDIANA, non la media, se ci sono valori molto alti o molto bassi.
no al dato assoluto, se possibile usare i TASSI con il rapporto sulla popolazione.
evidenziare i limiti dei dati che state usando (tutti i dati hanno limiti, bias, margini di incertezza).
Trovate altre indicazioni in questo vecchio numero della newsletter e nel mio adorato primogenito di carta di cui vi ho anche dato lo sconto sopra.
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