Si può applicare il femminismo dei dati al marketing digitale?
"È un gran caos", dice una persona con cui mi sono confrontata
In questo numero: proviamo a capire se l’approccio del femminismo dei dati sia realizzabile per chi si occupa di digital marketing. Senza parlare di contenuti inclusivi o di sessismo in pubblicità, per quello consiglio le newsletter di
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Leggi fino in fondo per un grafico stupidino su quanto è stato apprezzato il mio sforzo di fare a/r Roma Milano per quattro giorni.
The classism and racism of elites are math-washed, neutralized by technological mystification and data-based hocus-pocus.
Automating Inequality - Virginia Eubanks (Macmillan 2018)
* traduzione mia: Il classismo e il razzismo delle élite sono ripuliti dalla matematica, neutralizzati dalla mistificazione tecnologica e dalla "magia" basata sui dati.
Due settimane fa ho tenuto uno speech per un’agenzia internazionale che si occupa di marketing. Quando parlo di dati non posso evitare di parlare di data feminism, e di come possa essere rivoluzionario l’approccio che aiuta a chiederci chi beneficia dalla raccolta di questi dati, chi ne sarà discriminato. E, ho aggiunto, le domande con cui definiamo quello che vogliamo ottenere dai dati sono quelle che danno la forma ai nostri progetti, strutturano la realtà con cui poi ci troviamo a lavorare (come le persone si comportano con i nostri contenuti, che idea ci facciamo di loro, come vogliamo che interagiscano).
Aver portato il femminismo dei dati davanti a una platea internazionale di persone che i dati li guardano tutti i giorni è stata un’opportunità incredibile, ma mi sono chiesta: ora, queste persone, cosa se ne fanno della mia lezioncina? Come possono cambiare e migliorare i loro progetti e la loro raccolta dati? Bella la teoria, ma la pratica, soprattutto nel marketing, come si applica?
Apro il Kindle per ritrovare le citazioni che ho sottolineato in Automating Inequality di Virginia Eubanks e ci leggo questo:
Today, data-based “reverse” redlining has replaced earlier forms of housing discrimination. According to Seeta Peña Gangadharan of the London School of Economics and Political Science, financial institutions use metadata purchased from data brokers to split the real estate market into increasingly sophisticated micro-populations like “Rural and Barely Making It” and “X-tra Needy.” While the algorithms that drive this target-marketing don’t explicitly use race to make decisions—a practice outlawed by the Fair Housing Act of 1968—a category like “Ethnic Second-City Strugglers” is clearly a proxy for both race and class. Disadvantaged communities are then targeted for subprime lending, payday loans, or other exploitative financial products.
[sintesi: esiste un redlining moderno, per esempio nel mercato immobiliare, che definisce microtarget di popolazioni in base al loro potere d’acquisto, creando in qualche modo ulteriori discriminazioni, perché gli vengono venduti servizi per ottenere prestiti in modo da avere le stesse opportunità dei più ricchi. (redlining = v. wikipedia)
In Capitalismo della Sorveglianza di Shoshana Zuboff, tradotto da Paolo Bassotti per Luiss ed., ci trovo invece questo:
Chi oggi detiene il capitale della sorveglianza ha espropriato un bene dalle esperienze di persone dotate di pensieri, corpi ed emozioni vergini e innocenti come i pascoli e le foreste prima che soccombessero al mercato. In questa nuova logica, l’esperienza umana è soggiogata ai meccanismi di mercato del capitalismo, e rinasce come “comportamento”. Tali comportamenti divengono dati, pronti al loro lavoro in innumerevoli file che alimentano le macchine previsionali, e a essere scambiati nel nuovo mercato dei comportamenti futuri.
[…]
La pervasività globale dei computer è di fatto stata riconfigurata come un’architettura dell’estrazione dal capitalismo della sorveglianza. (…) In ognuna, hardware, software, algoritmi, sensori e connettività vengono rielaborati in forma di automobile, maglietta, telefono, libro, video, robot, chip, drone, macchina fotografica, cornea, albero, televisione, orologio, nanobot o qualunque altro servizio online, condividendo sempre lo stesso obiettivo: la cattura del surplus comportamentale. (…)
Chiamo queste operazioni renderizzazione.
Quindi… l’unico modo di applicare il femminismo dei dati nel marketing è smettere di raccoglierli?
Per 4 anni ho lavorato come docente di “social media strategy” nel mondo delle organizzazioni umanitarie, e di questi uno intero l’ho occupato facendo ricerca applicata sul tema. Poi sono stata digital campaigner per una b-corp per cui gestivo un database di più di 6 milioni di email e negli anni della scuola dei dati di cui ero la preside ho gestito e studiato tutta la strategia digitale e di email marketing.
Il mio mantra era: per sapere quello che stiamo facendo e come dobbiamo investire ci servono i dati. È normale. Quando facevo consulenza alle ong e sul loro sito internet non era installato google analytics impazzivo: come fate a sapere se una campagna non funziona? Se è un problema del copy, della pubblicità che fa atterrare le persone qui o della call to action? Oggi non faccio più consulenza, con il digital marketing ho smesso e non ho intenzione di tornare indietro, come chi scopre che senza sigarette l’olfatto migliora, ma se dovessi tenere una lezione domani sicuramente tornerei a dire che per fare campagne di comunicazione servono i dati.
Ma quali? La lettura di Data Feminism, ma anche dei libri che fanno parte della bibliografia di Dentro L’Algoritmo, come quelli che ho citato sopra, mettono in crisi l’idea della raccolta dati a tutti i costi, a fini di marketing.
Mi sono confrontata con Federica Rondino, che ho “scoperto” leggendo i suoi post nel gruppo BeUnSocial su Facebook, fondato da Alice Avallone, docente di small data alla Scuola Holden (mica a caso dunque che si trovasse lì), e poi re-incontrato come un’apparizione alla serata del DataBookClub dello scorso lunedì. Federica è un’ex giornalista che lavora con i dati delle piattaforme per trovare informazioni rilevanti per i suoi clienti. Avendo letto Data Feminism come primo titolo condiviso del book club le ho chiesto se avesse una risposta al quesito che mi attanaglia da una settimana: è un gran caos, la sua sintesi.
Riporto qui qualche passaggio della nostra conversazione in vocali asincroni:
Sorvegliare le persone in effetti sembra l’unico modo per poter costruire contenuti che ci servono per ottenere il nostro risultato finale, che di solito è un risultato di fatturato. Ma se non raccogliessimo dati non riusciremmo a mandare i giusti messaggi alle persone interessate al “prodotto” che vogliamo distribuire.
Noi non siamo materialmente le persone che raccolgono i dati, perché ci vengono forniti dalle piattaforme, ma nel nostro piccolo contribuiamo alla sorveglianza.
Se volessimo modificare il termine sorveglianza potremmo dire che stiamo cercando di comprendere chi ho dall’altra parte: ma questo può avvenire solo con dati che derivano dalla pre-fabbricazione del dato, cioè da qualcuno che ha deciso che quello è il dato interessante, il dato mappabile.
Il problema è una ri-definizione delle dinamiche di potere e dell’essere umano, di una cultura che non vede più l’individuo come un soggetto da bombardare di messaggi pubblicitari, o per le proprie campagne politiche, ma come un essere umano.
Ok Fede, ma mettiamoci pure dalla parte dei buoni, se le parole marketing e fatturato ci fanno venire i brividi: siamo un’organizzazione che attiva una campagna per raccogliere fondi, cosa dovremmo fare, navigare al buio? Nessun consulente consiglierebbe una mossa di questo tipo, e avrebbe ragione.
Nel 2018 lanciavo il mio sito internet e un servizio di consulenze per ong con un post in cui citavo l’esperienza di Niki Nakayama, chef del ristorante N/Naka di Los Angeles, che in una puntata Chef’sTable confessava di tenere taccuini con informazioni aggiornate su ogni cliente del ristorante:
Quando un cliente torna nel mio ristorante, so già che cosa ordinerà. Così gli servo qualcosa mentre si accomoda al tavolo e in questo modo gli ospiti rimangono sempre stupiti. Mi chiedono Come lo sapevi? Siete miei clienti, è naturale che io sappia cosa vi piace.
Applausi, no?
Sì, perché c’è una differenza tra la chef giapponese e i dati raccolti dalle piattaforme, la renderizzazione di cui scrive Zuboff: la quantità e la velocità di raccolta. Leonelli e Beaulieu, che in Data & Society prendono posizione contro la big data mythology, aggiungono la varietà, spiegando che in realtà abbiamo confuso il valore di questo tipo di dati aumentando le correlazioni tra i comportamenti delle persone, senza davvero comprenderli.
Che il computer in cui in questo momento sto dettando tenga traccia del luogo e dell’ora in cui parlo non richiede da parte mia alcuna intenzione specifica, l’operazione costa pochissimo, si applica a una quantità di dati che vanno dalla mia geolocalizzazione alla temperatura del mio corpo, alla direzione del mio sguardo, e a tutto quello che ho fatto prima e dopo questa dettatura.
scrive Maurizio Ferraris in Viva la filosofia, su La Lettura del 29 gennaio 2023.
La possibilità di avere ogni tipo di dato sulla vita e i comportamenti delle persone non ci obbliga a raccoglierli. Questa per me è la chiave immediata di applicazione del data feminism al digital marketing.
Torniamo a chiederci chi beneficia dalla raccolta di questi dati e chi sarà discriminato.
Anche unə potenziale cliente, come quellə che frequenta il ristorante di Nakayama a Los Angels, può beneficiare dalla raccolta dati sui propri gusti se questa migliora davvero la sua esperienza.
I dati e gli avanzamenti nella tecnologia possono renderci più efficienti, sì, ma più efficienti rispetto a chi o a cosa? (me lo chiedevo già nella newsletter di fine anno).
Per esempio, è bellissimo (forse) che Spotify includa la possibilità di registrarsi con un genere diverso da quello maschile o femminile, ma perché raccoglie questi dati? Un conto è la necessità di statistiche non binarie a livello nazionale, perché “ciò che viene contato conta” (v. mio ultimo per La Stampa), ma in una piattaforma di streaming musicale chi beneficia di questa informazione?
Federica ha un’idea ancora più radicale, ma temo ci vorrà del tempo (appunto), per metterla in pratica, e nel suo ultimo vocale mi dice così:
Per avere un approccio femminista dei dati nel digital marketing dovremmo abolire il concetto di “perdita di tempo” dalle nostre giornate: così le aziende non avrebbero più la spinta a chiedere dati per semplificarti la vita, per aiutarti a fare più in fretta, a scegliere più velocemente, e si darebbe risalto alla ricerca, alla scoperta, anche al non trovare, all’attesa, che è tutto quello che ci identifica come umani. Forse diminuirebbe anche la mole di dati che vengono richiesti, e noi dedicheremmo più tempo a scegliere come lasciarci profilare.
Cosa ne pensi tu? Mi lasci un commento con una riflessione? Grazie!
La dataviz della settimana
Trigger warning: distruzione dell’umanità
La visualizzazione della settimana subisce l’influsso della mia lettura notturna, cioè Tasmania di Paolo Giordano. Quindi ecco un bel grafico sull’orologio dell’Apocalisse, inventato dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell'Università di Chicago e aggiornato oggi da Amanda Shendruk di Quartz.
Siamo andati avanti fino a 90 secondi dalla mezzanotte in quest’ultimo anno:
Sono stata alle terme dei nerd
Cioè alla prima serata del DataBookClub, dove più di 60 persone hanno dialogato sulla lettura di Data Feminism, che abbiamo tenuto tra le mani o sul computer (grazie alla disponibilità in open access) per due mesi. Il prossimo titolo lo sveliamo oggi nel profilo Instagram del gruppo, ma se vuoi sapere come è andata qui c’è un post della mia socia Elena Canovi e qui quello di Ludovico Spagnolo.


E come promesso, ecco il grafico stupidino.
Grazie di aver letto fino a qui, ci leggiamo mercoledì prossimo!
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[NB: Questa newsletter è stata riletta e corretta dalla super Magda Basso. Se ci sono errori li ho fatti io aggiungendo cose prima dell’invio.]
I dati obiettivamente servono, e lo sweet spot (per me) è quel compromesso che sposa l'approccio quasi sartoriale di Niki Nakayama con le possibilità delle tecnologie digitali. Niki Nakayama lavora con i dati di prime parti, analogici, ma sempre di prime parti sono.
Tante aziende invece usano strumenti di terze parti (meta, TikTok, etc...) fornendo così tutto alle piattaforme per avere indietro una parte soltanto.
Sarebbe già qualcosa decidere prima che dati ho bisogno e come li utilizzerò, senza cadere nella tipica trappola del "raccogli tutto che poi ci penso". Così si può lavorare con i dati limitando la surveillance economy.
Una cosa che vedo spesso: ogni possibile piattaforma installata in un sito e i gestori che manco se ne ricordavano più. Le aziende potrebbero intanto iniziare con una pulizia di primavera, rimuovere i pixel di tracking se non fanno più campagne, interrogarsi se il servizio x gli serve davvero o è un tanto per.
disclaimer: non tracciare è contro il mio interesse.
D'accordissimo con la chiosa finale: avere spazio (inteso come tempo) per "fare ricerca" è la cosa che rende il mio lavoro di data analyst diverso e che mi ha sempre aiutato a "riuscire".
Ci vogliono manager illuminati, vero, ma anche capacità di fornire i risultati richiesti o almeno i principali.
Non sono invece d'accordo al 100% con la necessità di aggiungere la "varietà": nella mia esperienza è quasi più fruttuoso "ridurre il rumore", guidando un approccio che si concentri su quei segnali principali che aiutano a spiegare la maggior parte dei risultati.
E serve anche saper dimostrare che molto spesso le richieste più complesse possono contribuire a spiegare solo una piccola parte dello scenario analizzato.
Mi rendo però conto scrivendo che cammino sull'orlo di un paradosso: detta male sto dicendo di smorzare la curiosità del manager di turno (che a volte sono impossibili da soddisfare, diciamolo!) per poter avere più tempo per sfamare la nostra... :/