Di chi è la responsabilità per la comprensione di dati e statistiche?
Di chi li produce o di chi li legge? Riflessioni su una comunicazione non lineare tra ricerca e giornalismo
In questo numero: mi chiedo se in un paese che è al 30° posto su 37 per le competenze di numeracy (la capacità di leggere i numeri)1 sia necessario un lavoro collettivo delle comunità che producono dati e informazioni. La ricerca scientifica, in tutti i settori, e il giornalismo.
Questa settimana ci vediamo a Cagliari (venerdì) o a Pisa (sabato)? Sotto spiego tutto.
Intanto sta per uscire il programma completo del festival della Statistica a Treviso, io ci vado e intervisto varie persone. È come stare a Gardaland, ma senza giostre, per fortuna. Solo tanti panel su come i numeri raccontano la nostra società.
Sono tornata domenica sera dal festival di Internazionale a Ferrara e chi ha partecipato al workshop mi ha sommerso di commenti felici. Grazie.
Non mangio carne da aprile e cerco di essere “vegana prima di cena”, parafrasando Foer. Pensavo fosse più difficile.
E ora ecco quello che dovevo dirvi.
Quando il cane guida è in servizio, la sua attenzione è concentrata sul fare il suo lavoro. Per una visualizzazione dei dati, ciò significa aiutare le persone a vedere tendenze o schemi che altrimenti potrebbero non notare. Una buona visualizzazione guida attentamente il lettore attraverso una narrazione complicata, evidenzia le informazioni corrette e ci aiuta a comprendere ciò che dovremmo vedere. È responsabilità del cane guida garantire la sicurezza del suo padrone — allo stesso modo, è responsabilità della visualizzazione dei dati non creare false impressioni che potrebbero trarre in inganno il lettore.
Erica Gunn, Data Vis as Guide Dog, tradotto da chatgpt
Di chi è la responsabilità di (far) capire i dati
Perché vuoi sapere se facciamo corsi di media training nella ricerca?, mi chiede Eleonora (Marocchini). Ridendo, così come ha fatto Paola (Masuzzo), e tutte le persone accademiche che hanno visto e risposto a questo sondaggio su Instagram:
Perché c’è un filo che lega un festival di giornalismo a Ferrara all’università di Oxford, un viaggio che ho fatto in meno di 24 ore grazie alla moderazione di un webinar per Istat (i contenuti ve li racconto in un’altra newsletter). E perché di solito insegno che
se un grafico ti è incomprensibile, la colpa è di chi l’ha prodotto.
Antefatto.
Al workshop che ho tenuto per Internazionale a Ferrara lə studenti mi hanno sommerso di domande su come superare i bias per raccontare una storia con i dati nel modo più oggettivo possibile. Mi hanno chiesto se usare alcune parole per accompagnare le statistiche fosse deontologicamente corretto, se fosse lecito commentarli con aggettivi e avverbi con il rischio di veicolare in qualche modo un messaggio parziale e opinionated, e sono rimasti stupitə di sapere che nelle redazioni italiane non esiste la figura di statistical journalist per aiutare redattori e redattrici a interpretare bene i dati. Le persone che mi sono trovata davanti in classe erano preparate, la maggior parte di loro mi seguiva da tempo e non ho dovuto ribadire il fatto che i dati non sono neutri, ecc. Già sapevano. Siamo partiti con il piede giusto. Con 9 ore a disposizione abbiamo cercato di concentrarci su quali domande fare ai dataset, dove trovarli, come scaricarli (anche quando chiusi dentro brutti pdf) e quali scelte fare per rappresentarli. Come scrive Elena (Canovi) nelle storie che hanno accompagnato la sua bella recensione al corso, fare data journalism comporta una grande responsabilità:
Mi sono resǝ conto di quanto sia difficile non perdersi, procedere con rigore, avere una ragionevole certezza su cosa effettivamente rappresentino e su come siano stati prodotti i dati, stare con la responsabilità di sapere che probabilmente chi leggerà l’articolo prenderà per buone le nostre parole senza andare a rifarsi i conti e le analisi.
Dodici ore dopo sono a Oxford con Francesco (Rampazzo), demografo. In un webinar online.
Alla fine dell’intervista mi chiede un debrief, per sapere “se è andato bene”, perché ha seguito i corsi di media training all’università, ma vuole capire dove migliorare.
Mi si illuminano gli occhi e inizio a pensare che il mondo vada per il verso giusto: i giornalisti e le giornaliste seguono corsi su come leggere articoli scientifici e interpretare i dati, ma chi fa ricerca impara a rispondere correttamente a un’intervista e a comunicare con chi lavora nei media.
Se avete letto i risultati del mio sondaggio su Instagram più sopra avrete già capito che si tratta di minuscole eccezioni.
“Non mi hanno spiegato nemmeno come fare un paper, figuriamoci come parlare con i media”, scrivono a Paola (Masuzzo).
In effetti avevo una piccola speranza, ma ci avete messo meno di qualche minuto a demolirla.
Se esistono tantissimi esempi virtuosi e altrettanti corsi su come divulgare e comunicare la scienza, dalla Sissa di Trieste al lavoro che fa l’associazione Frame, per dirne una, anche nei messaggi privati su IG mi viene confermato che non esiste niente di simile a quanto mi ha raccontato il ricercatore che lavora in UK.
Resta tutto nella terza “missione”, mi spiegano sempre su Instagram:
La principale agenzia di finanziamento della ricerca in Europa (il consiglio europeo delle ricerche) prevede che le persone che vincono il finanziamento debbano occuparsi obbligatoriamente anche della disseminazione, la cosiddetta “terza missione”. Poi lì dipende molto da chi sei e da dove sei. Se stai in un’università di una grande città tendenzialmente non importa a nessuno di quello che fai e di quello che puoi dire. Se, come nel mio caso, abiti in una città di 100k abitanti dove l’università è una delle “cose” tendenzialmente più notiziabili (è un’occasione per mettere la città sulla mappa etc) il rapporto con i media è molto più diretto e rilevante. Di solito gli uffici stampa delle università intervengono a mediare tra la persona che fa ricerca e il media locale per costruire la comunicazione e gli eventuali servizi. Ma è tutto estremamente fluido.
Mi arriva qualche messaggio di conforto, per esempio dal Belgio, dove alcuni istituti di ricerca offrono corsi estivi e linee guida per le interviste, ma la maggior parte delle persone in accademia non ha avuto questo tipo di esperienza.
Non so se sia frutto dei suoi corsi di media relations, ma il risultato del mio dialogo con il ricercatore di Oxford è che mi sono interessata alle ricerche che sta conducendo e probabilmente avrò materiale per due o tre pezzi che scriverò nei prossimi mesi.
La responsabilità della comunicazione va condivisa, perché la comunicazione stessa non è un processo lineare, con un messaggio che va da un mittente a un destinatario. Non lo era nemmeno quando il “medium” era davvero uno solo e soprattutto uno per volta - la radio, la televisione o la stampa - e la fruizione dei contenuti non era pluri-mediale come oggi, ricordano Balbi e Ortoleva ne La comunicazione imperfetta2.
Questo vale anche per chi produce statistiche e grafici: è vero che non stiamo guardando opere d’arte quando siamo davanti a una visualizzazione ed è necessario imparare a leggerle e codificarle, ma le persone addette ai lavori hanno anche qui una responsabilità. Anzi, un potere. Che non risiede solo nelle capacità (economiche e tecniche) estrattive del dato, ma quelle di darne un senso: e visto che la conoscenza non è mai neutra, e il dato raccontato “crea immaginari e connessioni metaforiche”3, i grafici e le visualizzazioni, ma tutte le storie che partono dai dati, hanno l’enorme potere di influenzare il linguaggio della politica e del giornalismo. Sarebbe bello che in ogni ambito formativo se ne tenesse conto.
La dataviz della settimana
Una visualizzazione dedicata al gruppo di studenti di Ferrara che ha lavorato a un tema simile durante il workshop. Interessante la scelta di sdoppiare il grafico in modalità “specchio” per rappresentare due serie di dati. Su Bloomberg:
Riassuntino del tour di ottobre
Cagliari. Il 6 ottobre tengo un workshop gratuito sul data feminism a LeaderShe Camp, un festival per dialogare sulle questioni di genere insieme a incredibili professioniste. Sono aperte le prenotazioni.
Pisa. Il 7 ottobre torno all’amato Internet Festival con Diletta Von Huyskes, Alessandro Gandini e Elena Silvestrini con una sessione partecipativa sperimentale per parlare di etica e politica della tecnologia.
Aosta. Il 12 ottobre presento “Dentro l’algoritmo” alle ore 18 alla Biblioteca Regionale Aosta Bruno Salvadori.
Avigliana (TO). Il 13 ottobre intervengo insieme a Francesco D’Isa al Festival dell’innovazione e della scienza, qui il programma.
Milano. Il 13 ottobre dalle 17 alle 18 sono agli Slow News Days.
Treviso, StatisticAll 2023. Il 20 e il 21 ottobre mi trovate al Festival di Istat per dialogare di dati con Federica Fragapane, Azzurra Rinaldi e Lorenzo Pregliasco.
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Noi sentiamo mercoledì prossimo! (E se vuoi sponsorizzare le prossime edizioni guarda qui)
Dati Ocse/Piaac 2022
Gabriele Balbi, Peppino Ortoleva, “La comunicazione imperfetta”, Einaudi 2023.
Valeria Burgio, “Il dato efficace: performatività dell’infografica”, ne Il potere del dato, D | Ve 2023.
Domanda importantissima sulla quale mi sto arrovellando da tempo! La mia intuizione è che la responsabilità di quello che uno consuma dipende anche dal consumatore. In questo senso può avere senso fare un paragone con la nutrizione. Chi è responsabile per quello che uno decide di mangiare? Certamente le compagnie alimentari fanno di tutto per convincerci che un certo tipo di prodotto sia sano (o nascondono che non lo sia), ma il consumatore condivide la responsabilità di quello che mangia. Oppure no? Con i dati e le visualizzazioni secondo me il discorso è simile. Se da una parte chi produce visualizzazioni ha la responsabilità di quello che comunica e come lo comunica, dall’altra chi consuma l’informazione ha la responsabilità di farlo in modo informato e critico.