Cosa succede se non possiamo usare i dati sanitari (pubblici)
Lancet ci sgrida: le conseguenze per noi pazienti e per chi fa ricerca. E poi, qui è tutto nuovo, vedi?
In questo numero: che pasticcio i dati pubblici italiani sulla sanità. Ho provato a chiedere a chi fa ricerca cosa pensa dell’editoriale di Lancet Regional Health-Europe, per capire se siamo davvero messi così male.
Dove ci vediamo in giro
Online, 20 gennaio: alle 21:30 con il Data Book Club commentiamo le letture del mese su Zoom, Armi di distruzione matematica di Cathy O’ Neil e Né intelligente né artificiale di Kate Crawford.
Torino, 5 febbraio: alle 20:45 parlo del mio libro Quando i dati discriminano nella rassegna Apertamente dell’Istituto superiore Agnelli di Torino.
Camerino, 13 febbraio: tengo un talk all’università di Camerino nell’ambito del programma “Le competenze trasversali nella scienza”. Tema, l’etica dei dati.
La settimana scorsa ho scritto un articolo per SKYTG24 sulla prima indagine istituzionale sulle discriminazioni sui luoghi di lavoro delle persone trans in Italia. È uscita su Query l’intervista che la redazione mi ha fatto durante il CICAP Fest 2024 sulla "neutralità" dei dati. Mi trovi anche in questa bella inchiesta che ha scritto
per Internazionale sul monopolio delle istituzioni cattoliche sui metodi naturali per la fertilità.Sei tra le 9818 persone che leggono la newsletter. Nell’ultima puntata abbiamo parlato di come gestire la vita da freelance nel mondo della divulgazione e del giornalismo.
Da questo numero ci sono alcune novità, come forse avrete notato dalla nuova grafica, che era pronta da mesi, ma che ho voluto inaugurare con il 2025, visto che riprende quella del mio nuovo sito: una parte della newsletter settimanale sarà dedicata a chi sostiene il nostro lavoro con un abbonamento a pagamento, che avrà anche un numero speciale mensile di sintesi con i link ordinati e ben classificati, e anche consigli di consumo culturale da me e Roberta Cavaglià.
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Qualcosa si qualifica come dato in virtù della relazione che esso ha con il soggetto che lo produce, raccoglie, e utilizza, sia esso un singolo individuo o una comunità di ricerca.
Un dato di fatto: Uso e abuso del dato (AAVV, 2020) - per ricordarci che il dato è relazione.
Il sistema dei dati pubblici sanitari italiani è “rotto”
A fine dicembre il ministro dei trasporti Matteo Salvini sostiene che il nuovo codice della strada abbia salvato vite umane perché gli incidenti, i morti e i feriti, nei primi 15 giorni di applicazione, sarebbero diminuiti del 25%. Viene subito smentito dall’Associazione sostenitori amici della polizia stradale (ASAPS), perché “i dati, riportati dal ministro come generali, si riferiscono solamente agli scontri mortali rilevati da Polizia Stradale e Carabinieri che rappresentano solamente il 34% degli incidenti con lesioni rilevati in Italia, in quanto il restante 66% viene rilevato dalle Polizie Municipali”.
Dovrebbe essere una buona prassi quella di basarsi sui dati per prendere decisioni che influenzano la vita dei cittadini, così come monitorare l’efficacia dei provvedimenti e delle leggi. Ma, ovviamente, questo deve avvenire in un tempo ragionevole, e i dati non devono essere usati per confermare la propria tesi usando solo quelli che fanno comodo. Salvini ha fatto una classica operazione di cherry picking, cioè ha scelto le sue ciliegie migliori, i dati che gli servivano per confermare la sua decisione politica.
Negli ultimi numeri di questa newsletter sono tornata sul problema dei dati pubblici italiani, così come nei pezzi che ho scritto per Sky con le interviste alle autrici di Mai Dati: è incredibile che le PA non rispettino il Codice dell’amministrazione digitale, per cui mancano dati essenziali, da sempre, per capire se l’interruzione volontaria di gravidanza sia davvero accessibile: “non sappiamo quali ospedali eroghino effettivamente il servizio di IVG, quali siano le percentuali di obiettori o se certi metodi, come quello farmacologico, siano disponibili”, e “l’esercizio di un diritto viene trasformato in una sorta di caccia al tesoro”.
Lancet Regional Health-Europe e i dati sanitari italiani
A inizio mese la questione dati pubblici è diventata il centro di un editoriale della rivista Lancet Regional Health-Europe, in cui la direttrice Pooja Jha critica la struttura frammentaria del sistema sanitario italiano, dove
“non esiste un sistema unificato e centralizzato per la documentazione e la condivisione di cartelle cliniche elettroniche (EHR), dati ospedalieri e registri dei medici di base”.
E quindi? Quindi chiunque abbia avuto esperienza di andare a fare delle visite mediche per situazioni che prevedevano il confronto tra più specialisti sarà partito di casa con un borsone carico di fogli e cartelle cliniche. Quando la mia amica
mi racconta - e l’ho visto di persona quando sono andata a trovarla a Gent con la sua app dove rivede il grafico delle sue analisi del sangue - che va in ospedale a mani vuote per i controlli, e che anche quando chiede un consulto a un altro specialista gli basta digitare dei codici su un computer, mi chiedo come sia possibile che in un paese come il nostro questo tipo di esperienza ci sia preclusa.Uno dei problemi è il sistema frammentato che ci contraddistingue, cioè quello dell’autonomia regionale nella sanità:
Durante la pandemia di COVID-19, ha ritardato l’identificazione dei legami tra comorbidità e gravità dell’infezione, aggravando le disparità regionali nella capacità e negli esiti dell’assistenza sanitaria. Un sistema meglio integrato avrebbe potuto consentire analisi più ampie, risultati più generalizzabili e supportare una risposta nazionale più efficace e coordinata.
Se non ci sono dati coerenti o è difficile reperirli, a farne le spese è anche la ricerca:
Senza una piattaforma centrale, i ricercatori devono rivolgersi ai comitati etici e della privacy di singole strutture, che possono rifiutare le richieste senza fornire giustificazioni scientifiche sostanziali. Dal 2009, la percentuale di studi autorizzati sul totale è scesa al 15%, indicando un calo significativo. Inoltre, la raccolta di dati è spesso manuale e di bassa qualità, rendendo quasi impossibile la conduzione di studi multicentrici e di alta qualità, ostacolando lo sviluppo di risultati di ricerca solidi e generalizzabili.
Cosa succede in concreto nel mondo della ricerca
Valentina Panetta è una biostatistica, da più di 20 anni lavora nel campo della ricerca clinica, occupandosi di tutte le fasi, dalla stesura del protocollo alla analisi finale e alla presentazione dei risultati. Con la sua società di analisi statistica collabora con diverse università italiane e straniere e con l’Istituto superiore di Sanità. Le ho chiesto di commentarmi questo editoriale, perché volevo capire l’impatto sulle persone che fanno il suo lavoro. Mi ha detto che, in teoria, fare ricerca con i dati sanitari secondari, cioè dati raccolti per scopi diversi dalla ricerca, dovrebbe essere semplice, e anzi, ci sarebbero dei vantaggi anche per i risultati, per l’immediata disponibilità e una popolazione di studio più ampia di quella normalmente utilizzata nei clinical trial. Ma la desiderata e auspicabile disponibilità “è spesso ostacolata dalle diverse interpretazioni sulla normativa della privacy, il GDPR e l’utilizzo di dati sanitari in assenza di una esplicita autorizzazione del soggetto interessato”.
“Nell’ultimo anno”, aggiunge, “anche grazie alla spinta delle associazioni di settore, ci sono stati un po’ di cambiamenti che spero riescano a rendere più snello il processo e soprattutto lo rendano CHIARO ed UNIFORME, perché al momento non è raro ottenere risposte diverse ad una stessa richiesta”.
E poi (lo evidenzio):
Una volta ottenuta l’autorizzazione all’utilizzo dei dati ci troviamo davanti al secondo problema, la mappatura delle informazioni raccolte.
Uno dei punti di forza di questo tipo di studi è la possibilità di includere una popolazione di analisi più ampia e di avere grandi numerosità. Ma se centri diversi raccolgono informazioni diverse o le raccolgono con diverse modalità, sarà di nuovo necessario fare una selezione in ottica di disponibilità dei dati, e questo potrebbe portare a delle distorsioni dei risultati ottenuti. Per capire quanta poca importanza è data a questo aspetto ci basti pensare che il fascicolo sanitario elettronico, al momento, non è uniforme per tutte le regioni; quindi, anche uno strumento nato per gestire molti dati sanitari e che potrebbe anche risolvere il problema della pseudo-anonimizzazione perché io dati sono già interconnessi, rischia di non essere così utile ai fine della ricerca.
Di questo parla anche l’editoriale della rivista, e quello che racconta Panetta è in linea con le osservazioni fatte dalla direttrice. Valentina mi aggiunge ancora un dettaglio, che assomiglia ai racconti di Montegiove e Lalli quando cercano di reperire dati sulla pratica di interruzione di gravidanza:
Altra cosa che mi capita di vedere e che riguarda non tanto le differenze tra centri ma la poca informatizzazione della sanità, è che ci siano laboratori in cui l’estrazione dei dati viene inserita manualmente nei fogli di calcolo utilizzati per le analisi statistiche con evidente rischio di errori, o che alcuni dati clinici vengano inseriti più volte a seconda dello scopo, per esempio perché chi si occupa di seguire il/la paziente registra i dati in un suo sistema, poi li riporta nel sistema ospedaliero e poi, se la patologia fa parte di qualche registro nazionale, fa un terzo inserimento, quando poter far parlare i diversi sistemi ottimizzerebbe i tempi e migliorerebbe la qualità del dato.
Qui stiamo parlando di analisi che potrebbero migliorare l’approccio nei confronti di una patologia, salvare letteralmente vite umane. Sembra una di quelle situazioni all’italiana dove lo status quo è impossibile da scalfire, perché il traguardo di una pubblicazione amministrazione che funziona e coordina una filiera del dato funzionante e trasparente è un miraggio, sempre all’orizzonte - ci crediamo noi attivistə dei dati pubblici - ma mai raggiunto. E un sistema sanitario che non riesce a comunicare con se stesso è un sistema che non riesce a prendersi davvero cura delle persone.