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Nei mesi estivi la newsletter diventa mensile e scritta da unə ospitə illustre che ho presentato con un data portrait qui.
Il 20 giugno è stato il turno di Paola Chiara Masuzzo.
Ciao! Sono Paola Chiara, ma tuttə mi chiamano Paola. Sono nata e cresciuta ad Avola, in Sicilia (lo so che stai pensando al vino), e 11 anni fa sono emigrata in Belgio, dove ho fatto un dottorato di ricerca in bioinformatica. Mi sono innamorata di Gent e non me ne sono più andata. Sono una scienziata dei dati a tempo pieno e una ricercatrice indipendente (soprattutto nei weekend e nei momenti ‘liberi’).
Ho lasciato l’università nel 2017, non senza un pizzico di dolore, ma continuo a fare advocacy per una ricerca più democratica, giusta, e accessibile a tuttə. Qualche volta mi invitano a parlare di Open Science, qua e là.
Leggo molto, veramente molto. Scrivo molto meno ma mi piacerebbe farlo di più.
Ho visto Seinfeld, la serie, almeno 7 volte, e al mattino voglio che mi si parli solo dopo due tazze di caffè.
Mi trovi anche su Instagram, qui.
Beautiful losers
Alla fine degli anni Settanta, e di nuovo tra il 1987 e il 1993, l’intelligenza artificiale (IA) vive due lunghi periodi conosciuti con il nome di AI Winters (gli inverni dell’IA), e caratterizzati da una presa di coscienza collettiva sulle limitazioni del campo di ricerca, e su tutte le promesse che avevano fatto macchine e algoritmi, e che non erano ancora state mantenute. Il primo fallimento dell’IA viene trasmesso dalla BBC nel giugno 1973, con un dibattito televisivo andato in onda nel programma Controversy, tra Sir James Lighthill, l'accusatore, e tre esperti di IA come imputati (il dibattito è un vero e proprio gioiellino e si può vedere su YouTube).
Alle ore 09:00:58 del 1º febbraio 2003, nel corso della missione STS-107 partita il 16 gennaio dello stesso anno, la navicella Columbia prova a rientrare nell’atmosfera terrestre, ma si disintegra nei cieli del Texas. Tutti e sette gli astronauti a bordo muoiono. È la seconda volta che uno Space Shuttle viene perso durante una missione, e purtroppo non sarà l’ultima.
È il 1998, ho 14 anni, penso di essere molto brava in matematica, partecipo alle Olimpiadi al liceo e i risultati mi costringono a cambiare idea, o comunque a ridimensionarla. È il 2009, mi trasferisco negli Stati Uniti d’America pensando di esser pronta a vivere l’esperienza della mia vita, quella che mi cambierà, che mi farà diventare grande, una giovane donna di successo, che mi aprirà tutte le strade! Poco so, che in realtà gli USA non mi piacciono per niente, che soffro molto la lontananza, e che spreco tempo a rimpiangere di essere partita, piuttosto che produrre, produrre, produrre. Un fiasco.
Cosa hanno in comune tutte queste storie? Sono storie che parlano di fallimenti.
La lista potrebbe andare avanti. Siamo circondatə di fallimenti. Li viviamo in prima persona, siamo testimoni di tanti altri ogni giorno. Professionali, personali, relazionali. Il fallimento è sempre lì, in agguato, pronto a rovinare le cose per cui lottiamo e ci impegniamo.
Ma che cosa significa fallire? L’etimologia del verbo ci suggerisce semplicemente: commettere un errore. Implica, dunque, una cosa che ci succede, o che facciamo succedere.
Deve esserci stato un momento, però, nella storia dell’umanità, in cui il fallimento ha smesso di essere qualcosa che ci accade, ed è diventato qualcosa che siamo. O, forse in modo ancora più totalitario, un momento in cui fallire non è stato più solo un atto, preciso e puntuale, localizzato nel tempo e nello spazio, ma piuttosto un’etichetta che ci appicchiamo addosso e che prova a ridurre tutto quello che siamo in una sola parola.
Del resto, negli USA in particolare, si è passatə a un certo punto da usare questa parola in ambito finanziario (fallire in affari, andare in bancarotta, etc.) a permearla di una vera e propria identità. Nel suo “Born Losers – a History of Failure in America”, Scott Sandage scrive che storicamente questa transizione può essere additata all’esplosione del capitalismo, soprattutto al momento in cui abbiamo smesso di lavorare per il nostro benessere, e abbiamo iniziato a farlo per quello di qualcun altro. Dall’altra parte, assieme a questa, sono nate molte altre narrazioni, tutte altrettanto fittizie e nocive; quella per cui “se vuoi, puoi”, quella per cui “io mi sono costruitə da solə e non ho bisogno di ringraziare nessunə”. Tutte bugie pronte a sottolineare quanto sia impossibile pensare di avere successo, o persino di fallire, contando solo ed esclusivamente su noi stessə e le nostre energie.
Di recente ho pensato molto al fallimento. Sono stata da poco a una conferenza, la European Women in Tech 2022, e uno dei temi chiave dell’edizione di quest’anno (la prima dopo la pausa pandemia) è stata la resilienza, una parola forse un po’ abusata, ma che ha del senso se si pensa alle sfide che noi donne dobbiamo affrontare in un mondo ancora prevalentemente maschile. Resilienza: la capacità di reagire ai momenti più bui, di riorganizzare la propria vita di fronte alle difficoltà. Quello che mi colpisce sempre, quando si parla di fallimento e dei sentimenti che vi navigano intorno, è la facilità con la quale cadiamo nei cliché. È che non lo sappiamo dire, e allora ci inventiamo cose che vanno da “failure is not an option” (Dio ce ne liberi) a “embrace the failure” e “celebrate your failures” (organizziamo un failure party?). Perché è così complicato parlarne in modo onesto, o almeno provarci? Alla conferenza avrei voluto sentire e vedere più onestà, in merito.
Mi viene in mente questa cosa che abbiamo fatto nel mondo accademico, quando ci siamo inventatə la locuzione research excellence, dopo esserci resə conto che era troppo complicato provare a dire a parole (in altre parole) quanto sono brave le persone che fanno ricerca. E così ancora oggi parliamo di eccellenza della ricerca, usando un’espressione che in fin dei conti dice tutto su chi si siede al tavolo a giudicare, e poco o niente, su chi invece è sotto scrutinio. Moore et al. ci hanno scritto un articolo bellissimo, che mi ha aiutato a mettere a fuoco perché non provavo più amore per l’istituzione universitaria, as we know it, e che mi ha costretta a lavorare al mio curriculum e lasciarla.
Lavorare al mio curriculum. Voglio fermarmi a riflettere un attimo su questa azione forse a prima vista banale eppure piena di significato e di grande potenza.
Quando ero una bambina piccola e andavo a scuola materna mi piaceva molto disegnare e colorare, ma non volevo mai far vedere i miei disegni a mamma o papà perché pensavo li avrebbero giudicati, ci avrebbero attaccato un voto, e questo voto per me non era mai abbastanza alto. Queste sono cose che ovviamente ho imparato a riconoscere crescendo (benedetta sia la terapia), e in particolare mi sono resa conto del potere immenso che ha sempre avuto e continua ad avere nella mia vita (ma credo sia così un po’ per tuttə) l’atto del recording: misurare, annotare, salvare.
Nel 1841, un certo signore di nome Lewis Tappan inizia a interessarsi a sistemi di rendicontazione creditizia, e cerca un modo per capire se può fidarsi dei propri clienti, se ci sono buone probabilità che pagheranno in tempo, e così via. Tappan decide quindi di conservare tutti i file sui clienti (senza fogli di calcolo!), creando una vera e propria banca dati e fondando la Mercantile Agency, la prima agenzia di informazioni creditizie negli Stati Uniti.
L’azienda discendente di Tappan esiste ancora, ed è forse l’azienda con il più alto volume di dati di rapporti di credito a disposizione. Ma perché mi interessa parlarne, e perché mi interessa parlarne in relazione al fallimento?
Perché l’atto della scrittura, dell’inchiostro che sigilla, del salvataggio del dato, di quello che vi pare, è un atto potente che rende il perdono, e il dimenticare, molto più difficili.
E non dobbiamo pensare solo ai sistemi di credito. A scuola, l’atto dei voti, i voti scritti sulle pagelle. Nella giustizia, la centralizzazione degli atti di polizia e il salvataggio dei record criminali, i verbali. Ha tutto un senso, di informazione, di costruzione del ricordo, ma è spesso anche un’arma a doppio taglio, che si prende la presunzione di costruire storie e identità intere.
Il problema non è che misuriamo tutto e ne teniamo traccia (sono una data scientist, amo i dati): credo sia sano annotare la nostra storia, quello che facciamo, quello che costruiamo, quello che impariamo, dai voti a scuola alle opportunità lavorative. Il problema, per me, è che a queste misure, campionamenti discreti di una vita continua molto più estesa e molto più complessa, si finisce sempre per associare un valore positivo, o negativo, un reward o un punishment (se vogliamo parlare in termini di data science).
Avere buoni risultati significa che delle porte si apriranno, e porteranno a cose buone: una casa, un mutuo in banca, un lavoro. Diventa insomma molto più difficile, forse quasi impossibile, ottenere libertà culturale ed economica da alcuni standard, e definire il successo alle nostre (e solo nostre) condizioni.
Quando ho lasciato l’università, per iniziare a lavorare nel privato, ho aperto il file del mio curriculum, e mi sono messa a sistemarlo perché fosse più idoneo e accattivante possibile per la posizione alla quale aspiravo. Allo stesso tempo, però, ho aperto un secondo file, ho iniziato a buttare giù tutte le cose che avevo provato a fare nella vita, e che però non mi erano riuscite, e l’ho salvato sul computer con il nome “cv_failures”.
Sì, avevo costruito un piccolo database di fallimenti, i miei fallimenti. Il libro che avevo iniziato a scrivere, e che non avevo mai finito, la tesi di dottorato che mi aveva fatto andare 6 mesi fuori corso, un progetto da 10 milioni di euro che però mi faceva schifo perché non avevo dato abbastanza ascolto a me stessa. La lista era lunga. Cinque anni dopo, la lista è ancora più lunga.
Vorrei tantissimo avere un curriculum dove parlo di me, dei miei successi e dei miei fallimenti, in un file soltanto, senza distinguere i primi dai secondi, senza considerare i primi bellissimi e i secondi qualcosa da dimenticare, ma nemmeno da celebrare. Sono tutti punti, punti più o meno grandi su una linea continua che sono io, quello che scelgo, quello che vivo. Vorrei tantissimo avere un file soltanto, ma al momento va bene così.
Qualche tempo dopo ho scoperto che questa cosa del curriculum dei fallimenti non l’avevo mica inventata io (che delusione, sigh). Nel 2016, Johannes Haushofer, professore di psicologia in New Jersey, aveva pubblicato il suo primo cv of failures, listando corsi di studio a cui non era stato ammesso, finanziamenti di ricerca che non aveva ottenuto, rejections da parte di riviste accademiche (a fuoco!) per la pubblicazione dei suoi articoli scientifici.
Haushofer scriveva:
Most of what I try fails, but these failures are often invisible, while the successes are visible (La maggior parte di quello provo fallisce, ma questi fallimenti rimangono invisibili, mentre i successi si vedono).
E i successi si vedono perché ne parliamo, perché vengono raccontati. Ironicamente, Haushofer aggiunge:
This darn CV of Failures has received way more attention that my entire body of academic work. (Questo maledetto CV di Fallimenti ha ricevuto molta più attenzione di tutto il mio lavoro accademico).
Non è un caso che un’idea di questo tipo sia nata dentro il mondo della ricerca accademica, purtroppo abituato a raccontare storie bellissime fatte di risultati impressionanti e nascondere sotto il tappeto, facendo finta che non esistano, tutti gli esperimenti che falliscono e i progetti che muoiono strada facendo. È una cosa che nomino spesso negli ultimi anni quando parlo di Open Science: sono fortemente convinta che aprire la scienza (attraverso articoli scientifici in open access, ma anche apertura e condivisione di protocolli, materiali di ricerca, dati e metadati, e così via) significhi non solo democratizzare il sapere e catalizzare la produzione di conoscenza, ma anche ricordarsi che la ricerca è, è sempre stata e sempre sarà umana, e, come tale, suscettibile a fallimenti.
Nel 2019, all’Open Science FAIR a Porto, parlavo per la prima volta di questa cosa qui, e di come fosse arrivato il momento di cambiare i toni della conversazione dentro le mura accademiche. Garantire accesso alle riviste economiche a costo zero (che poi qualcuno deve comunque pagare alla resa dei conti nel Sistema attuale) non era (e non è) più sufficiente. Se vi va di stare un po’ su Twitter, fatevi un giro intorno alle #failtales, favole finite male, ma che hanno ogni diritto di essere raccontate (ci aveva scritto un pezzo anche il mio caro amico Jon Tennant) .
L’intelligenza artificiale vivrà ancora nuovi inverni, la NASA sbaglierà ancora qualche calcolo, e io sicuramente troverò tanti modi per commettere ancora tanti sbagli.
Ma sono certa che gli algoritmi e le macchine ci regaleranno anche tante soddisfazioni, che capiremo ancora moltissime cose dello spazio fuori dal nostro pianeta, e che io tornerò a scrivere pezzi come questo, in cui mi sento a casa, serena, nonostante, e forse anche grazie, ai miei fallimenti.
Letture, serie TV, eventi
Sono stata alla #EWIT222 e ho preso appunti facendo live tweeting, qui il thread da leggere se siete interessatə all’argomento.
Poco tempo fa sono stata costretta a letto per qualche giorno (sì, covid), così ho recuperato una serie che mi ha fatto piangere molto (ma tanto ho dato la colpa al covid): Gentefied, ve la consiglio.
Ho anche letto due libri, tutte e due per la seconda volta: “I leoni di Sicilia”, di Stefania Auci, e “Il morso” di Simona Lo Iacono (forse mi manca l’isola, sì), e finito l’ultimo numero di ACT.
Sono una fedelissima lettrice di MARLA, la rivista di info.nodes. Dal 15 giugno è disponibile in anteprima il numero cartaceo di "Le città invivibili": l’ho già comprato e non vedo l’ora di averlo tra le mani!
Restate all’ombra
Il primo numero della Summer Edition finisce qui: mandate cuori a Paola Chiara Masuzzo, perché è una mente brillante e dovrebbe scrivere di più. Magari la costringo a diventare co-autrice della newsletter, con questo modello di business a cui ho pensato in questi giorni a letto con il covid: geniale, no?
Bevete molto, restate all’ombra, non uscite nelle ore caldissime, ci leggiamo il 20 luglio e se vi va lasciate un bel commento a questo numero speciale.
Grazie!
Donata e Paola
Grazie. Molto condivisibile la riflessione sul fallimento, mi è piaciuto particolarmente il punto che hai fatto su come sia diventato un elemento caratterizzante della persona, invece di un evento delimitato nel tempo e nello spazio. Che sia per lo stesso motivo per cui dei bambini oggi si chiede sempre “è bravo/buono”, come se bravura e bontà fossero delle caratteristiche (quasi) genetiche?!
Francesca
Newsletter letta tutta d'un fiato, grazie! Quando andavo a scuola mi infastidiva che i miei genitori mi chiedessero 'che voto hai preso?', nonostante avessi voti alti. E comunque non era semplice affrancarsi da questa cornice.
Questo tema dei fallimenti andrebbe affrontato sin dalla più tenera età... ora me lo salvo per capire come farlo con i nani di casa. Grazie! Spero non sia l'unica co-newsletter di voi due!