

Discover more from Ti spiego il dato - ogni settimana
Basta focus group, questionari e survey
Provocazione: possiamo raccogliere dati in un altro modo, più collaborativo, ma che metta in risalto ogni individualità?
In questo numero: ispirazioni per raccogliere dati senza separare chi li analizza e chi li produce. E poi: come si visualizzano 243 miliardi di dollari australiani? E gli appuntamenti di maggio.
Prima però ringrazio lo sponsor che oggi è ancora Fight The Stroke, a cui potete destinare il 5x1000 delle vostre dichiarazioni dei redditi. Questi sono i risultati del sondaggio che vi abbiamo proposto la volta scorsa:
Al 4% che non sa cosa sia il 5x1000 consiglio questa pagina del sito di Fight The Stroke. Per chi ha risposto “mai” mi auguro invece che sia il caso di un’abbonata alla newsletter che giustamente mi ha scritto perché al sondaggio mancava una risposta che la includesse: purtroppo chi è in regime forfettario e non versa l’Irpef non può nemmeno destinare il cinque per mille. Ma a Fight The Stroke nel caso specifico si può anche fare una donazione una tantum, passando da qui 🙂
E ora, parliamo di dati.
Sia online che offline, le caselle che spuntiamo, i moduli che compiliamo, i profili che creiamo - nessuna di queste azioni è neutra. Segniamo con una X ogni parte di noi. (…) Il corpo è un testo: per identificarci, ogni volta che lo facciamo, scegliamo delle definizioni - dei nomi - che limitano i diversi modi in cui si possono leggere i nostri corpi.
Glitch Feminism, Legacy Russell (Giulio Perrone Editore 2021, trad. di Gaia Giaccone)
Come faccio a sapere se un servizio pubblico sta funzionando? Raccolgo dati. Se lo spazio urbano di una città è progettato in ottica di genere ed è inclusivo? Faccio un questionario (e se siete di Roma, partecipate davvero a questo del link).
I questionari e le survey, così come i focus group e le interviste, sono tra i migliori strumenti che - ad oggi - possiamo usare per raccogliere dati sulle persone coinvolte nei nostri servizi o nell’acquisto dei nostri prodotti: per conoscere, cioè, cosa vogliono, cosa desiderano, i bisogni che possiamo soddisfare, i modi in cui preferiscono interagire con noi e molto altro.
Focus group per i rossetti Belle Jolie, scena da una puntata di Mad Men
Si somministrano questionari per avere feedback sui corsi di formazione, si organizzano focus group per decidere se lanciare nuovi prodotti, si raccolgono dati con l’osservazione partecipante per analizzare il comportamento delle persone e le loro interazioni in luoghi fisici e virtuali. In molti, moltissimi casi questi metodi sono esattamente quello di cui abbiamo bisogno.
Però. Però.
Sono tutti strumenti che separano le persone oggetto della raccolta dati da chi materialmente la progetta e poi farà uso di quei dati.
È un approccio valido in tutte le occasioni? Se ve ne parlo qui, ovviamente la mia opinione è che no, non può funzionare sempre, anzi, ci sono ambiti in cui le risposte che ottengo dalle mie domande fotograferanno una situazione parziale o anche poco veritiera rispetto al vissuto delle comunità protagoniste.
A inizio maggio sono stata a Firenze per tenere una formazione organizzata dalla cooperativa Il Girasole per una quarantina di operatori e operatrici che lavorano nel contesto dell’educativa di strada e della prima accoglienza di minori. Le indicazioni da cui sono partita per preparare il workshop erano tutte in questa domanda:
che dati dobbiamo raccogliere per capire se stiamo facendo un buon lavoro?
Chi finanzia le cooperative chiede di conoscere il numero di “eventi” organizzati, di ingressi ai centri giovani, di ore dedicate all’una o all’altra attività. Bisogna riempire le celle di una tabella e misurare in base ai kpi forniti a inizio progetto, ma sono numeri davvero significativi per chi fa questo lavoro quotidianamente? La risposta, unanime, è stata: no.
“Per me anche solo incrociare un ragazzo dei nostri per strada, dopo mesi dal primo incontro, rivolgergli la parola, chiedergli come sta, è fare il mio lavoro. È un aggancio, è sapere cosa sta facendo, e se torna a fare un’attività l’anno successivo è un enorme successo”.
mi ha raccontato un partecipante.
Ma come lo misuro? E come misuro il “gradimento” delle iniziative organizzate?
I questionari in molti di questi casi non funzionano. Raramente si ottengono dati veritieri, o risposte in una quantità sufficientemente rappresentativa. Compilare questionari - a meno di non essere una survey-nerd come la sottoscritta - è noioso, e chi può ne fugge.
Che fare allora? La raccolta dati deve essere partecipata, collaborativa e votata alla serendipità (def).
Sì. Non possiamo aspettarci precisione e rigore, ma conoscenza che deriva dall’osservazione di ogni persona che partecipa.
Una mappatura collaborativa, con molto spazio per le esperienze individuali.
Senza troppi vincoli, ma con un focus sul tema da indagare.
A due settimane dalla formazione mi arriva su Whatsapp la foto di un esperimento in una scuola media da parte di uno degli educatori partecipanti: la raccolta dati (in questo caso sulle notizie che si trovano sui giornali di carta, secondo loro, e una votazione per misurare il loro gradimento su quei temi) è diventata parte integrante delle attività organizzate con ragazzi e ragazze.
Lavagna con votazioni dei temi, courtesy of Lotar Sanchez
Al workshop ho proposto di coinvolgere i ragazzi e le ragazze in raccolte dati settimanali, su se stessi, senza per forza “contare” le ore trascorse in ogni attività ma per esempio interpretando liberamente consegne e istruzioni come “disegna la mappa della tua casa”, come in questo lavoro partecipativo di Bloomberg durante il lockdown.
La mappa disegnata da Maria Matilda Salim, Indonesia.
Per prendere spunto
Ispirazioni su modalità partecipative e fisiche di questo tipo di analisi e osservazione della realtà, in cui emergono le individualità in maniera collaborativa, senza schiacciarle dentro metriche predisposte, possiamo trovarle nei lavori dell’agenzia spagnola Domestic Data Streamers, che progetta vere e proprie “info-data-esperienze” (consiglio il video sulla campagna I stand for per raccogliere dati sui comportamenti dei partecipanti ai festival musicali) e dalla nostrana Sheldon.Studio, che ha ultimato proprio in questi giorni un progetto di raccolta data fisica e partecipativa nelle scuole del torinese sullo spazio dei cortili:
C’è ancora una mappatura partecipativa che non vi ho raccontato, ed è quella sulle esperienze di vulnerabilità online che abbiamo raccolto nel workshop di data feminism a Reclaim the Tech. Lì siamo partiti dalla definizione, ed è stato molto interessante scoprire la percezione che ogni persona ha, e che vive in realtà sul proprio corpo, della vulnerabilità. Ma sarà per una prossima puntata.
Questa newsletter è sostenuta da: Fight The Stroke
“I bambini con emiplegia, epilessia o quello che vi pare, non si frantumano in mille pezzi se li fate giocare a calcio con voi, ve lo dico. Piuttosto si rompono se non li fate giocare.”
“Se c'è una cosa che ci è sempre sembrata strana di questo mondo della disabilità tutto italiano è il non riconoscere le singole aspirazioni, continuare a presumere che tutti vogliano fare portachiavi, portare caffè o essere rinchiusi dentro casette della fragilità, trattare le persone con disabilità come se fossero un unico monolite con zero sfumature di colore”.
Quando Francesca Fedeli, fondatrice di Fight The Stroke, condivide un pensiero sul tema della disabilità bisogna sedersi e prendere appunti. È con questo spirito totalmente avventuriero, innovativo ma fondato sulla scienza, che vengono progettate le iniziative della fondazione.
Come per esempio il Fight Camp, organizzato ogni anno dal 2018, per coinvolgere ragazzi e ragazze con una disabilità di Paralisi Cerebrale Infantile in attività di riabilitazione motoria innovativa tramite la partecipazione a sport come l’arrampicata, la vela (nel 2022 sono salpati su un galeone dei pirati!), il football, con attività di potenziamento motorio e cognitivo. O ancora la progettazione dell’app per smartphone MirrorHR che aiuta le famiglie a gestire l'epilessia, consentendo ai e alle caregiver di agire rapidamente quando le crisi iniziano a verificarsi di notte.
Oppure l’ultima iniziativa, una diretta Twitch di 5 ore in cui i ragazzi si sono sfidati ai videogiochi insieme ai loro creator preferiti.
Firma per il 5x1000 a Fight The Stroke (con il codice fiscale 97688330154) e, se non puoi, fai una donazione immediata, anche con Satispay.
La dataviz della settimana
Un lavoro di ABC News Australia per aiutare le persone a capire le grandezze di valori che riguardano il budget pubblico. Quanti sono 5 milioni di dollari? E 234 miliardi? Nella newsletter non ci stanno :)
Dove vado a maggio? In giro.
Milano. Il 18 maggio alle 20:30 sono tra le speaker di Stand up for Girls!, evento annuale dell’ong Terre des Hommes, ma i posti dal vivo sono esauriti. Si può seguire online qui.
Torino. Il 21 maggio al Salone del Libro di Torino presento il libro “Ciclo” pubblicato da Quinto Quarto editore con l’autrice Natalie Byrne e con l’attivista e attrice Chiara Becchimanzi.
Torino/2. Il 22 maggio sempre al Salone c’è un laboratorio per le scuole sul mio libro “Dentro l’algoritmo” (effequ), ma bisogna prenotarsi.
Trieste. Il 27 maggio per la prima volta sono al festival di Parole Ostili.
Roma. Il 28 maggio partecipo a un evento in sostegno del centro antiviolenza Lucha Y Siesta presso la redazione di Scomodo, in via Carlo Emanuele I 26.
Roma. Il 29 maggio tengo una keynote alla International Visual Methods Conference che si tiene all’università Sapienza.
Padova. Il 31 maggio presento Ti Spiego il Dato al Festival Je T'aime.
Bene, ci sentiamo mercoledì prossimo!
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Basta focus group, questionari e survey
Vero, le pesone tendono a mostrarsi meglio di quel che sono e preferibilmente non vogliono entrare in conflitto, specialmente con altri 7 sconosciuti in una stanza (anche virtuale). Per questo l'abilità del ricercatore (e l'esperienza) fanno la differenza. Si tratta di osservare tutto, davvero tutto. Sopracciglia che si inarcano, silenzi basiti, risatine soddisfatte, tentativi di distrasi per non dire quel che si pensa. Forse quelle persone non interverranno in quel momento, ma ci daranno diversi segnali che possiamo intercettare per capire che la pensano diversamente (e forse si può anche capire come la pensano). Il gruppo, quando il tema non è sensibile e funziona davvero, diventa persino caotico, prende la sua strada e aiuta a far emergere un pensiero collettivo che altrimenti non sarebbe emerso. Detto questo, potessi fare sempre osservazione, sarebbe fantastico :) Grazie per aver affrontato questo argomento così affascinante!
Il problema del chiedere alle persone è fondamentalmente che mentono, a volte involontariamente. I focus group hanno il problema della compiacenza, raramente le persone andranno contro il concetto di prodotto (“sì è buono”). Non so - in senso letterale - se la raccolta partecipativa possa essere un contributo a questo problema