In questo numero: intelligenza artificiale è un termine che nasce già ricco di problemi linguistici. Non abbiamo ancora trovato il modo di parlarne senza accostare le macchine all’umano.
Oggi senza sponsor, ma prima della “dataviz della settimana” c’è comunque un boxino a cui prestare attenzione.
Il nuovo universo che avevo scoperto era emozionante e terrificante e romantico, come qualsiasi cosa che cerchi di essere tutte e tre le cose.
Raphael Bob-Waksberg, Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata
Un mese fa ho chiesto alle persone che leggono i miei contenuti sui social se fossero in grado di spiegare i termini “intelligenza artificiale”, “algoritmo” e altri che influenzano la nostra vita digitale, e non, da più di dieci anni. Su Linkedin, dove mi seguono persone che lavorano anche in contesti dove gli algoritmi si progettano e il codice viene scritto ogni giorno, solo il 30% saprebbe spiegare bene con certezza il significato di ciascuna parola. Su Twitter la percentuale sale al 56,9% (ma la base dei voti è minore), mentre su Instagram le risposte che ho ricevuto al sondaggio sono state queste:
Perché abbiamo problemi a parlarne?
All’evento “Game of Tech” organizzato dal dipartimento delle Scienze Sociali dell’università di Napoli ho avuto occasione di confrontarmi su questo con due sociologi, Alessandro Gandini e Biagio Aragona, e un filosofo Fabio Fossa. Il “problema” della definizione, o comunque della necessità di fare una riflessione sui termini è fondamentale per me, come giornalista e divulgatrice (o “data humanizer”) convinta del fatto che avere una lingua per parlare di un argomento significa comprenderlo, averne piena consapevolezza.
Nel libro ho voluto dedicare molto spazio agli spiegoni, con tanto di disegni, perché la confusione genera 1) paura 2) fascino e non aiutano a intravedere eventuali problemi concreti al di là dei glitch che interrompono il nostro flusso di rassicuranti contenuti algoritmici.
Pensando alle definizioni mi sono ricordata improvvisamente delle slide di Nadia Piet alla conferenza WUDRome organizzata da Nois3 nel 2019. Piet fece un intervento sul ruolo del design nel progettare esperienze di AI, presi appunti ma all’epoca credevo che il tema non mi riguardasse così da vicino. Avevo ampiamente sottovalutato quel box “data” nel suo efficace schemino:
Ma non c’è il termine “intelligenza artificiale” in nessun passaggio illustrato da Piet, che invece è definito quasi per negazione, qui:
A differenza di altre buzzword, e a Napoli ci è stato chiesto se intelligenza artificiale fosse una di quelle destinata a restare, non è un concetto tecnico.
L’algoritmo lo puoi disegnare, l’intelligenza artificiale no.
Nel libro ho disegnato un diagramma di flusso (le regole algoritmiche), ho messo nero su bianco un grafo (un network di relazioni), ma l’AI resta un termine volutamente vago, astratto, può essere usato in modi molto diversi tra loro e che, come ripeto spesso, ci attrae. Alza l’open rate delle newsletter quando è nell’oggetto, i click agli articoli quando è nel titolo. Ci coinvolge più di termini come “programmare”, “apprendimento automatico, “modello linguistico autoregressivo” (ciao chatgpt!) che sono troppo specifici, troppo nerd.
Fabio Fossa, che insegna filosofia ed etica della tecnologia a una classe di ingegneria meccanica del politecnico di Milano, mi ha dato ragione (cito dagli appunti):
Sì, è il termine più immaginifico, come dici tu attraente, ed è stato introdotto per questo, a metà anni ‘50: per accaparrarsi fondi per la ricerca. Si può giocare moltissimo su un concetto come così, anche a livello letterario, è cibo per la nostra mente fantasiosa ed è fumoso abbastanza perché resti con noi per molto tempo.
Il riferimento storico di Fossa è utile, come ricorda Meredith Broussard in “La non intelligenza artificiale”:
Insieme a un suo collaboratore, John McCarthy, [Marvin Lee] Minsky organizzò la primissima conferenza sull’intelligenza artificiale, nel 1956, al dipartimento di matematica di Dartmouth. I due fondarono poi l’Artificial Intelligence Lab al MIT, che divenne in seguito il celebre MIT Media Lab, tutt’oggi l’epicentro globale dal quale si irradiano nel mondo tutti gli usi più creativi della tecnologia, una fucina di idee per persone come George Lucas, Steve Jobs, Alan Alda, Penn e Teller (il MIT Media Lab è stato così cortese da assumere anche me, per un progetto di software dedicato alle teorie di Minsky). La carriera di Minsky è stata una successione di colpi di fortuna ad ogni svolta. Oggi la maggior parte degli scienziati deve combattere per i finanziamenti in un contesto dove i fondi si riducono a vista d’occhio. Minsky apparteneva alla generazione alla quale i soldi sembravano uscire dai rubinetti.
Perché ritengo che ci siano dei limiti, al modo in cui ne parliamo?
Perché stiamo associando a dei pezzi di ferro - perdonate la sineddoche - a dei concetti che riguardano l’essere umano.
Intelligenza, creatività, decisioni, scelte, fiducia, persino “morale”, come ha evidenziato ancora Fossa nel suo intervento a Napoli.
C’è un equivoco nel considerare le macchine equiparabili agli umani ed emerge chiaramente nel momento in cui abbiamo iniziato a progettarle perché l’interazione con loro potesse assomigliare a quella tra persone. Su questo, sono grata che al Data Book Club stiamo leggendo un libro illuminante, e ne parliamo insieme il 13 marzo (e poi con l’autore Simone Natale, in una data da definirsi). Per unirti a noi passa da qui.
Chi ha parlato di questi temi in giro:
Roberta Cavaglià ha intervistato me, Vera Gheno, Eleonora Marocchini e Isabella Borrelli sulla algo-lingua e come cambia il nostro modo di produrre contenuti per i social. Su SiamoMine.
Caterina Nicolis intervistando Diletta Huyskes in questo numero di Lampoon Magazine
Paolo Ciuccarelli in questo articolo che parla di ruolo dell’AI nella data visualization e nel data storytelling.
- nella sua newsletter Scrolling Infinito dice che la creatività ha perso cedendo il passo ai dati, e va bene così.
- si è interrogato su quale valore possiamo apportare come umani in un sistema automatizzato e a costo zero.
Alessandra Farabegoli vede i limiti umani e spera che alcuni siano superati dall’intelligenza artificiale.
Infine, Matt Bornstein, Guido Appenzeller e Martin Casado si interrogano su chi possiede infrastrutture delle piattaforme di intelligenza artificiale generative (link trovato nella newsletter di
)
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onData è un’associazione che si occupa di dati aperti, democrazia e trasparenza. Senza l’associazione onData non avremmo mai avuto i dati in formato machine readable sulla pandemia, ma solo il lenzuolo di colonne colorate in jpeg diffuso via Telegram dal ministero della Salute. Di onData sono socia e molto del mio lavoro di giornalismo con i dati, come quello di moltə freelance, sarebbe impossibile senza la “liberazione” di dati pubblici fatti dall’associazione, più veloce e precisa delle amministrazioni pubbliche che potrebbero rilasciare i propri dataset con un clic, e invece fanno passare mesi e mesi.


onData è anche tra le associazioni promotrici della campagna DatiBeneComune grazie alla quale sono state fatte inchieste sui dati relativi al PNRR, sull’ora di religione nelle scuole, sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Oggi uso questo spazio per invitarvi a iscrivervi alla sua preziosa newsletter mensile (eccola:
) e considerare una donazione:La dataviz della settimana
Non poteva che riguardare l’intelligenza artificiale. Diverse persone esperte sul tema hanno espresso la loro opinione sul futuro delle “cosiddette intelligenze artificiali” e in particolare su quando saranno in grado di sostituire completamente gli esseri umani “in ogni task”. Avessero fatto a me questa domanda sarei stata dentro l’1,1% del “never”.
Tour e segnalazioni
Il 17 febbraio in pausa pranzo sono online con Jacopo Ottaviani e Cristina Da Rold per rispondere alla domanda delle domande (insomma, una di quelle che ci viene fatta sovente), e cioè: COME SI DIVENTA DATA JOURNALIST? Abbiamo 3 percorsi diversi, lo facciamo in modo diverso, sarà interessante discuterne online su Instagram alle 13 venerdì.
Il 21 febbraio alle 12 intervengo sul tema della cosiddetta intelligenza artificiale e i sistemi generativi di contenuti in un panel online organizzato da Digital Update. Con me Alessandra Farabegoli (email marketing expert), Giovanni Carrada (comunicazione della scienza), Gianluca Diegoli (marketing expert) e Mario Petruccelli (CEO di Zulla).
Il 2 marzo sono a Milano al Diversity Brand Summit, con uno speech sulla consapevolezza che possiamo acquisire se impariamo a conoscere e riconoscere il viaggio dei dati.
Il 7 marzo presento Dentro l’Algoritmo alla libreria Golem di Torino intervistata dalla già nominata incredibile giornalista Roberta Cavaglià.
Il 10 marzo alle 20:45 invece lo presento alla biblioteca comunale di Sirmione insieme a Nicolò Sarno, presidente dell’associazione Giovani di Sirmione.
Sono aperte le iscrizioni per il corso di giornalismo “Un mondo da raccontare” che si tiene alla Scuola del Libro, con la direzione di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale. Sono tra i docenti con una lezione sul data journalism, lavoriamo sulle domande da fare ai dati per ricavarne una storia, ci sarà da divertirsi.
Vuoi portarmi in tour? Scrivimi!
Grazie di aver letto fino a qui, ci leggiamo mercoledì prossimo!
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[NB: Questa newsletter è stata riletta e corretta dalla super Magda Basso. Se ci sono errori li ho fatti io aggiungendo cose prima dell’invio.]
Mi sono commosso. E non aggiungo altro, se non un grande grazie 😘
Cara Donata, che bello leggerti, che bello camminare spesso insieme. Grazie di cuore da onData 💓