

Discover more from Ti spiego il dato - ogni settimana
In questo numero: una breve riflessione su kpi che non dovrebbero esserlo, a partire dai cesarei in ospedale. Ho scritto la newsletter da un letto e la sto editando dal tappeto, segno che mi sono alzata, sono stata meglio, ma che l’influenza che mi ha colpito lunedì e che mi ha fatto saltare gli eventi di Bologna e Padova, è ancora bella in circolo. Quindi sì, breve, e anche in ritardo.
Devo ringraziare poi la (cara) sociolinguista Vera Gheno per aver citato Ti Spiego il Dato nel suo podcast Amare Parole - insieme ad altre utilissime e apprezzate fonti - e tutte le persone che le hanno dato fiducia, iscrivendosi. Se vi sono piaciuti i numeri letti finora, consigliate la newsletter e fatela girare.
«Anziché cercare la verità, la si crea con un punteggio.»
Cathy O’Neil, Armi di distruzione matematica (Bompiani)
Guardare solo ai dati non permette alle cose di funzionare bene
Qualche giorno fa la medica e anestesista Sasha Damiani, fondatrice della pagina Mamme a nudo, pubblica su Instagram un post della Gazzetta di Parma con la notizia dell’ospedale Maggiore che risulta il “primo in Italia per riduzione dei cesarei”.
Senza sapere niente di ginecologia, nascite, maternità, cesarei, vi sembra una buona notizia?
Essere il primo in classifica di solito è buona cosa. Riduzione dei cesarei, be’, sì, abbiamo ridotto delle operazioni chirurgiche, anche questo sembra positivo.
Avendo partorito due volte, ho dei bias personali piuttosto forti sul tema: quando ero incinta del primo figlio controllavo le classifiche degli ospedali con il minor numero dei cesarei per scegliere dove partorire, perché circola da molto tempo (cercate su google) l’idea che l’Organizzazione mondiale della sanità abbia davvero fornito una raccomandazione con un dato specifico per capire se i paesi stanno eccedendo con questa pratica chirurgica. Invece, lo dicono loro stessi, la raccomandazione non è mai stata fatta.
Spiegano invece che
A partire dal 1985, la comunità medica internazionale ha ritenuto che il tasso ideale di tagli cesari dovesse essere compreso tra il 10% e il 15%.
Si parla di rischi e di benefici e questi possono variare a seconda della salute della paziente e delle condizioni in cui avviene il parto.
Il problema è quando una (inesistente) raccomandazione o un “tasso ideale” diventa un KPI, un indicatore di performance universale. Qual è il problema di fare questa scelta? Basta leggere i commenti al post condiviso dalla medica Damiani per farsene un’idea:
È il basso numero di cesarei che mette in sicurezza - e fa sentire accolta - una madre e il suo neonato? Oppure ci sono altri dati che dovremmo osservare? L’accesso all’anestesia, la scelta - non l’obbligo - del rooming in, la possibilità per il padre di passare del tempo il nuovo / la nuova nata e con la madre, e molto altro.
Tra l’altro la stessa OMS scrive:
Allo stato attuale non esiste un sistema di classificazione internazionalmente accettato per i tagli cesarei che permetta un confronto sistematico del tasso di tagli cesarei tra diverse strutture ospedaliere, città o regioni.
In una puntata del podcast che ha lo stesso titolo dell’account Instagram (“Mamme a nudo”), Sasha Damiani e le altre co-fondatrici del progetto, intervistano la medica Valeria Cerri, esperta in ginecologia e in medicina materno-fetale, approfondendo il tema del cesareo, la sua storia e le statistiche che ancora oggi ci portano a valutare l’operato di un reparto maternità. Cerri spiega che intanto parlare di cesareo al singolare sia sbagliato, e che nel 2015 l’Associazione ostetrici ginecologi italiani aveva messo in dubbio il fatto che le percentuali citate dall’Oms, se riferite all’Italia, fossero davvero un indicatore di rischio per la salute delle mamme e dei bambini.
Il tema è davvero sviscerato benissimo qui, ascoltate la puntata, ne vale la pena.
Per altre evidenze scientifiche sul tema, soprattutto sulla salute dei neonati, vi passo un link di un lungo pezzo dell’economista
.Quello che mi preme ricordare, ancora una volta, è che i dati, da soli, non bastano per giudicare l’operato di un ospedale, un’azienda, un governo, un esercito.
Del conteggio delle vittime di una guerra ho scritto da poco, ma ho riletto Data Detective di Tim Harford e anche lui cita il generale McNamara e la conta dei soldati:
la tesi di McNamara era che, quanti più nemici venivano uccisi, tanto più la vittoria era prossima. In molti espressero dubbi a riguardo, ma il “conto dei corpi” si trasformò rapidamente in un numero usato informalmente per valutare le singole unità e assegnare promozioni, motivo per cui veniva spesso esagerato. E siccome è più facile includere nel conto nemici già morti invece di ucciderne di nuovi, contare i cadaveri divenne un obiettivo militare a sé stante. Si trattava di un’attività rischiosa e inutile, ma rispondeva al distorto sistema di incentivi istituito da McNamara. Questo episodio storico ci dimostra che non sempre vale la pena di raccogliere i dati, ma lo scopo di McNamara appare piuttosto evidente: cercava di comprendere e controllare una realtà distante da lui, di cui non aveva esperienza diretta come soldato.
Aggiunge Harford, citando Donald T. Campbell:
“Più un indicatore sociale quantitativo viene usato per prendere decisioni, più sarà soggetto a pressioni che lo corromperanno e tenderà a sua volta a distorcere e corrompere i processi sociali che aveva lo scopo di monitorare”.
Ne farei segnalibri da lasciare in tutti i manuali in cui c’è l’espressione “data driven” nel titolo.
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La dataviz della settimana
Devo ricordarmi di guardarla con il 5enne: l’interattiva del Washington Post sui satelliti che gravitano attorno alla Terra.
In giro, influenza permettendo:
Firenze, 23 novembre: sono a BTO con due appuntamenti, uno dedicato alla cassetta degli attrezzi del data storytelling per il turismo e uno su come valorizzare il patrimonio con gli open data. Il calendario è qui.
Bologna, 27 novembre: sono all’evento Orfani speciali: vittime invisibili del femminicidio, al Festival della Violenza Illustrata.
RaiTre, 26 novembre: alle 8 (sì, è presto) mi trovate all’interno della trasmissione “Protestantesimo” dove parlo di dati e femminicidi.
Milano, 30 novembre: Violenza contro le donne: lasciamo parlare i numeri, alla Chiacchierata femminista di We World.
(qui la pagina dove sono raggruppati tutti gli eventi in calendario)
A mercoledì prossimo!
Ah, se ti è piaciuto questo numero leggi anche questo:
L'espressione data driven ha poco senso
Un caso di studio molto interessante questo dell’ospedale che hai citato. Grazie per questa riflessione
Molto utili le tue riflessioni. E porrei particolare enfasi sul concetto di un solo dato e di KPI. Un solo dato non basta quasi mai soprattutto quando ci troviamo di fronte a sistemi complessi in senso letterale. Il problema quindi è avere un set di dati che possano veramente descrivere il fenomeno. E la scelta è un tema di conoscenza e di obiettivo: tutti compiti molto umani. Quanto al tema dei KPI la mia esperienza è che la legge di Goodhart (https://en.wikipedia.org/wiki/Goodhart%27s_law) ha quasi sempre la meglio :-)