"I dati sono condizione necessaria, ma non sufficiente per politiche migliori"
3 domande alla data guest star di oggi, per osservare l'uso dei dati fuori dal contesto occidentale. E poi: sai quanta acqua consumiamo vs di quanta acqua abbiamo bisogno? Un quiz.
Oggi è l’ultimo mercoledì del mese, il giorno in cui una Data Guest Star risponde alle mie domande in tema “dati”.
L’ospite di oggi è una delle mie fonti privilegiate di scoperta sul mondo dei dati fuori dall’Occidente, ma molto in linea con i temi di cui mi sono occupata per moltissimo tempo, cioè quelli legati alla cooperazione internazionale. Sto parlando di Giulio Quaggiotto, ex capo dell’unità di innovazione strategica al Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e molto altro che racconto dopo. L’unico motivo per cui sono ancora su Twitter è perché c’è lui che ci condivide link interessanti.
Anche questa settimana abbiamo il sostegno di We World onlus, che ho sempre ammirato per come lavora e racconta il proprio operato, usando i dati prima che lo facessero molti altri. Per continuare il nostro viaggio nell’atlante Flowing Futures partiamo da un quiz, la risposta la trovate sotto nello spazio dedicato:
Questa newsletter, come tutte quelle con le persone ospiti, sarà sempre senza paywall, ma l’archivio completo è per chi si abbona.
3 domande sui dati a... Giulio Quaggiotto
La biografia di Giulio è già da sola una scoperta di quanti lavori interessanti si possono fare in questo ambito: è stato il capo dell’unità di innovazione strategica a UNDP e ha lavorato, tra le altre, per Climate-KIC, Nesta, la Banca Mondiale e il WWF. In passato ha gestito Pulse Lab Jakarta, una iniziativa congiunta del governo indonesiano e il segretariato delle Nazioni Unite sull’uso dei big data per politiche pubbliche. È un Honorary Fellow dell’Institute for Innovation and Public Purpose a UCL. Le opinioni espresse in questa intervista sono a titolo personale.
Ed eccoci qui.
1. Cosa sono per te i dati?
Sono uno degli strumenti che abbiamo creato per cercare di capire il mondo e saziare la nostra eterna ansia di risposte. Uso il termine “creato” per indicare che i dati sono un artefatto, un fenomeno socialmente costruito. Un fenomeno relazionale. Questo sia nel modo in cui sono raccolti (l’attuale ossessione con l’intelligenza artificiale ha almeno il merito di aver reso questo fatto sempre più palese), ma anche nel modo in cui sono interpretati e usati per giustificare decisioni. Quando vedo un pannello di dati (dashboard) o un modello mi piace immaginare il percorso che i dati hanno fatto per arrivare lì (come sono stati raccolti e che cosa non è stato raccolto, dove, da chi, per quale scopo, con quali presupposti, etc.), un po’ come percorrere a ritroso il percorso delle briciole lasciate da Hansel e Gretel. Ma mi piace anche pensare ai rituali, i network, le pressioni sociali, le “stanze dei pulsanti” o magari i caffè, i condizionamenti che determinano se questi dati saranno usati o no.
Quest’ultimo aspetto mi sembra ancora tutto sommato meno enfatizzato, almeno nei settori di cui mi occupo (il settore pubblico e dello sviluppo internazionale). C'è ancora molto da “scavare” sul concetto di “evidence based policy” (il vecchio adagio è che in realtà il più delle volte abbiamo “policy based evidence”). Per parafrasare Ben Phillips, autore di “Come combattere l’ineguaglianza”, il paradosso della evidence based policy è che abbiamo pochissimi casi di decisori che hanno intrapreso azioni trasformative sulla base dei dati. Di sicuro non si può partire dal presupposto che se ci sono dati migliori ci saranno decisioni migliori. I dati sono una condizione necessaria, ma non sufficiente per politiche migliori.
2. Qual è una criticità del tuo ambito di lavoro dove l’uso, la citazione o la cattiva interpretazione dei dati e delle statistiche può fare dei danni?
Gli esempi purtroppo sono tanti. Un’area che ha ricevuto particolare attenzione di recente, e purtroppo per i motivi sbagliati, è quella dei sussidi sociali. Vari scandali a livello globale hanno portato l’attenzione sul fenomeno dell’automazione dell’esclusione: dal Robodebt in Australia (il governo è stato condannato a pagare 1,8 miliardi di dollari australiani di compensazione), ai sussidi per le famiglie in Olanda (che ha portato alla caduta del governo), dai sussidi per il cibo in India fino allo stesso recente fiasco del sistema Horizon negli uffici postali in Inghilterra che si situa concettualmente nello stesso ambito. Le conseguenze su famiglie che molto spesso erano già marginalizzate sono state drammatiche, come ha documentato un recente rapporto di Amnesty. Purtroppo lo schema è abbastanza chiaro: se i dati sono raccolti e i sistemi sono disegnati con il presupposto che ci siano molti che abusano il sistema e che siano da punire, ci si può aspettare una discriminazione diffusa come risultato. L’automazione in questo senso peggiora solo le cose. È bene ricordarselo anche nei casi più promettenti e trasformativi, come per esempio l’anticipazione dei disastri per erogare sussidi prima che avvenga un’inondazione (e non dopo, come è la prassi).
Di recente ho appreso di un caso, almeno parzialmente, contrario: un sistema di raccolta dati e monitoraggio dei sussidi della municipalità di Jakarta che è disegnato per costruire un profilo “a 360 gradi” delle famiglie che hanno bisogno di sussidi, identificare chi dovrebbe riceverli e, una volta erogati, come le loro condizioni cambiano nel tempo. Ovviamente anche in questo caso c’è una possibilità di abuso del sistema, ma l’intento sembra essere quello di includere, non di escludere, e questo porta a un approccio della raccolta e interpretazione dei dati diverso. Anche qui, parliamo di un fenomeno socialmente costruito.
Come possiamo facilitare una discussione costruttiva sull’utilizzo dei dati e degli algoritmi incentrata sull’apporto di valore pubblico? Il Safety Nets Innovation Lab di Code for America e il lavoro di InwithForward in Canada sui “trampolini sociali” sono esempi che seguo con interesse.
3. C’è un “dato” o un modo di usare i dati che può essere rivelatorio secondo te negli ambiti di cui ti occupi? Puoi citare casi studio che conosci, buone pratiche…?
Sono particolarmente interessato agli usi dei dati che offrono spiragli, aprono possibilità e incoraggiano l’immaginazione, specie nel contesto di organizzazioni burocratiche dove la tendenza e’ spesso di dire “si fa cosi’ perché è sempre stato cosi’”. Due esempi:
L’antidoto alla sindrome da tabula rasa. Molte istituzioni (nel settore pubblico o dello sviluppo) soffrono di quella che è stata definita “la sindrome della tabula rasa”. Tutti gli incentivi favoriscono la creazione di politiche nuove e il “tagliare il nastro”, partendo dal presupposto che si debba cominciare tutto da capo invece di capitalizzare su iniziative già esistenti. Per questo guardo con interesse a iniziative come la data powered positive deviance.
Immagina di lavorare sul cambio climatico in Somalia per aiutare comunità di agricoltori. La tentazione molto spesso è di dire “ma qui c’è bisogno di partire da zero”. E invece la domanda che si sono posti ex colleghi di GIZ e UNDP è stata:
possiamo utilizzare i dati (specialmente i big data) per identificare le comunità che prosperano (o quantomeno non hanno problemi di risorse idriche) anche in condizioni di siccità estrema? Che cosa possiamo imparare da loro, e come possono ispirare altri?
Ecco: questo mi sembra il cambiamento fondamentale di forma mentis: invece di partire da un mondo/modello ideale con tanto di target e chiedere come faremo a raggiungerlo, utilizzare i dati per scoprire esempi del futuro che è già qui, nel presente, ma non distribuito in maniera uniforme e per questo spesso ignorato. E costruire un processo sociale che coinvolga le comunità nell’interpretare, assimilare e adattare queste “eccezioni” per farle poi diventare la nuova norma (senza cadere nella trappola della ripetizione pedissequa e la logica dello scalare). Un approccio un po’ simile lo ha seguito Daniel Aldrich, nella sua ricerca sulle comunità giapponesi che si sono riprese più velocemente dallo tsunami. I suoi dati hanno dimostrato che, contrariamente alle aspettative, le comunità che hanno fatto meglio non sono quelle con l’infrastruttura fisica più avanzata, ma quelle con il più alto capitale sociale. Questo perché se conosci il tuo vicino fai lo sforzo di bussare alla sua porta per dire a lui/lei di scappare una volta che hai sentito l’allarme tsunami. E quindi un intervento in ottica futura per migliorare la prevenzione non è tanto costruire nuove dighe (il default burocratico), ma magari party di quartiere regolari in modo che i vicini facciano conoscenza.
Contrastare la logica estrattiva: la raccolta dati nelle burocrazie segue spesso una logica upstream (nella splendida definizione di Panthea Lee). Il presupposto è che ci sia un decisore (spesso in posizione centrale) che sa meglio degli altri in quanto esperto, senior, etc. a cui bisogna rendere conto di quello che che è accaduto (perché chi sa mai cosa stanno facendo questi qui nelle province, o nei centri di assistenza sociali, le scuole ecc!). Ovviamente esagero, ma questa impostazione porta spesso alla manipolazione dei dati nel tentativo di presentare sempre e solo successi. Un’industria estrattiva, a modo suo. Che ha anche lo svantaggio di ridurre l’innovazione. Come notato in un report recente sull’Africa, un aspetto importante della creatività è di poter sperimentare e “giocare” con i dati per ottenere nuove prospettive. Ma questo non è possibile quando la pratica corrente spesso riduce, in questo caso, gli africani al ruolo di collettori di data o oggetto di ricerca.
Cosa succede se invece disegniamo seguendo una logica downstream per cui i dati sono utili (e interpretati) da chi è più vicino a un problema? I progetti come il semaforo della povertà in Paraguay (che ha ridisegnato i sondaggi di povertà perché siano utili in primo luogo ai poveri); Garbal in Niger (che ha reimmaginato la raccolta dati perché aiuti le popolazioni pastorali nomadi a prendere decisioni migliori), o Urbanist AI (che aiuta le comunità a immaginare piani urbani “dal basso”) aprono l’immaginario a una logica di raccolta e interpretazione dei dati molto diversa.
E se questo fosse “il new normal”?
4. Cosa consigli a chi vuole fare un lavoro che riguarda i dati nel tuo ambito?
Quello che ho consigliato di recente a un giovane burocrate in un governo dell’Asia del Sud che si appresta a lasciare il suo lavoro per perseguire un master su “evidence based policy”.
È importante studiare ed esplorare i meccanismi della domanda dei dati, non solo quelli dell’offerta.
Nel settore pubblico e dello sviluppo ci siamo focalizzati troppo spesso su quest’ultimi, a scapito dei primi. E continuare a chiedere: dove sono i dati mancanti? E che cos’è che i dati non possono catturare?
Questa newsletter è sostenuta da: WeWorld
L’Atlante prodotto da WeWorld è una miniera di dati, ma anche di mappe e infografiche che rivelano quello che non vogliamo vedere. Perché se negli ultimi anni, quando si parla di crisi ambientale, sentiamo spesso nominare la co2, i combustibili fossili, le risorse alternative, c’è una parola che viene pronunciata raramente, o, diciamo solo durante le emergenze. Il consumo, lo spreco e il razionamento dell’acqua.
Il minimo di cui avremmo bisogno è 50 litri al giorno ma in Italia questa è la quantità che usiamo soltanto PER UNA DOCCIA. In totale ne usiamo 245 litri (p. 16, se volete andare a sbirciare gli altri dati). Lo standard minimo della sopravvivenza sono 2,5-3 litri d’acqua al giorno per bere e mangiare, 2-6 litri per l’igiene personale, e gli ospedali avrebbero bisogno di 40-60 litri al giorno per paziente.
A Gaza i palestinesi faticavano ad accedere ad acqua potabile adeguata anche prima dell'attuale crisi, ma le Nazioni Unite stimano che oggi in media un cittadino viva con soli 3 litri di acqua al giorno per tutte le esigenze, ben al di sotto dello standard di emergenza delle Nazioni Unite di 15 litri. Senza energia, tutte e cinque gli impianti di trattamento delle acque reflue di Gaza e la maggior parte delle sue 65 stazioni di pompaggio delle acque reflue sono state costrette a chiudere entro metà novembre. Fino al 70% dei gazawi ora ricorre all’acqua salata e contaminata prelevata direttamente dai pozzi. “L'aiuto umanitario che può essere fornito alla popolazione è solo una goccia nell'oceano”, dice Giovanni Pedron, coordinatore dell’emergenza a Gaza per WeWorld, “perché le agenzie umanitarie affrontano gravi limitazioni nella consegna di aiuti di base. Nonostante immense difficoltà e un diffuso senso di ingiustizia, il personale di WeWorld, che è anche sfollato e impoverito dal conflitto, ha orgogliosamente e efficacemente supportato la risposta alla crisi con interventi immediati per salvare vite, concentrandosi principalmente su Acqua, Servizi sanitari e Igiene”
E nel resto del mondo? Le mappe sullo stress idrico globale ci aiutano a capire la situazione: questo indice misura i prelievi d’acqua come proporzione delle risorse idriche disponibili. I paesi del Medio Oriente sperimentano tutti condizioni critiche a questo proposito.
Nella mappa del nord globale scopriamo invece che l'Italia è al quarto posto per quantità di persone senza accesso a servizi igienico-sanitari gestiti in modo sicuro. Nel 2022, il 9,7% delle famiglie ha lamentato irregolarità nel servizio di fornitura idrica. Il disservizio ha interessato quasi 2,5 milioni di persone. Di queste, circa il 70% viveva nel Sud (1,7 milioni di famiglie), con la Calabria e la Sicilia le più esposte a problemi con la fornitura d'acqua nelle abitazioni.
L’acqua è una risorsa fondamentale, ma in costante diminuzione ovunque, a causa della crisi climatica e dei conflitti che esasperano le condizioni già precarie dei territori più fragili.
Scarica l’Atlante e confronta tutti i dati nelle mappe e nelle infografiche realizzate da WeWorld.
La lista delle risorse del mese
📒 Da leggere
Un (altro!) consiglio dall’ospite di oggi: “Data is powerful because it’s universal. The cost is context”.
L’ultimo numero della newsletter
con un pezzo scritto da in cui si racconta che nel 2018, il 36% delle donne che vivevano nel distretto di Beed, nello stato di Maharashtra, in India, si era sottoposto alla rimozione dell’utero come conseguenza della crisi climatica.I dieci progetti vincitori dei Sigma Awards, uno dei premi più importanti per il data journalism.
📻 Da guardare e ascoltare
La parodia crime femminista di cui non sapevi di aver bisogno. Così Vanity Fair definisce Deadloch, serie tv su Prime che mi ha fatto divertire (e spaventato, perché sono una fifona) in quest’ultimo mese. Consigliatissima.
Nemiche geniali, il podcast di Jennifer Guerra sull’amicizia, di cui consiglio però anche l’ultimo libro, Il femminismo non è un brand (Einaudi).
La puntata di Shirley, il podcast di Elena Canovi, con ospite Vincenzo Latronico. Un gioiellino.
Il libro scelto dal DataBookClub: Le Tessitrici, di Loreta Minutilli (effequ), di cui discuteremo il 22 aprile.
Marzo è finito, oggi mi hanno letta 7061 persone, il tour continua ad aprile (passo da Sirmione, Firenze, Fidenza, Perugia, Busto Arsizio e Milano) ma questa newsletter è troppo lunga per aggiungere le date qui :) Vi aggiorno il prossimo mercoledì.
A presto!